Estetica
Il termine estetica, come testimonia la sua stessa etimologia (dal greco aesthetikòs “sensibile, relativo alla sensazione o percezione”), rimanda ad una dimensione strettamente connessa alla sfera del sensibile e a tutto ciò che la caratterizza, ossia il particolare, l’individuale, il contingente. Si tratta del territorio della nostra esperienza concreta. È quanto emerge dalla riflessione di A.G. Baumgarten che, per la prima volta, usa il termine estetica per indicare una disciplina filosofica determinata. Secondo Baumgarten la verità estetica, lungi dal risolversi in quella logica e intellettuale, regolata da principi chiari e universali, costituisce un ambito diverso, quello della “conoscenza sensibile”. La verità estetica dunque è quella che può essere affermata come tale dai sensi, attraverso la percezione. Tuttavia il concetto di estetica ha subito nei secoli numerose trasformazioni, sino a divenire “estetismo diffuso”, in cui si è disperso quel carattere di verità contenuto nell’opera. È necessario quindi, ricostruire un’estetica contemporanea. Il nostro campo di percezione deve esser ridestato per ricondurci ad uno “stato estetico” capace di intuire e generare bellezza vera. Recuperare il vero “fine dell’estetica – che, come suggerisce Baumgarten – è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale. E questa è la bellezza.”
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Dapprima “disciplina riguardante la conoscenza sensibile o la percezione” (in questo senso il termine fu ancora usato da I. Kant). Dalla metà del 18° sec. e soprattutto dal 19° sec. in poi, il suo significato prevalente è quello di “disciplina riguardante il bello (naturale e artistico), la produzione e i prodotti dell’arte, il giudizio di gusto su di essi, e così via”. I due significati coincidono per alcuni versi in A.G. Baumgarten, cui si devono l’introduzione del termine in accezione moderna (1735) e la costituzione dell’estetica come disciplina filosofica. Così se nell’Ottocento l’estetica si identifica di fatto con la filosofia dell’arte, nel Novecento prevale la consapevolezza che l’estetica sia una dimensione che fa tutt’uno con l’idea stessa della filosofia. Si può quindi affermare che il ‘sentimento’ estetico, identificato con la capacità creativa e costruttiva del pensiero umano, è la condizione che rende possibile non solo l’esperienza artistica, ma anche l’esperienza in generale e la stessa conoscenza (inclusa quella scientifica) che ne possiamo avere. Nella “Critica della facoltà di giudizio” di I. Kant viene tematizzato quel giudizio estetico che formuliamo quando affermiamo che una determinata cosa è bella e, che è definito “giudizio di gusto”. Ciò che caratterizza tale giudizio è l’impossibilità di ricondurre quel determinato fenomeno giudicato ‘bello’ ad una legge che sia universale e necessaria, valida in modo certo e rigoroso. Al contrario, ciò che nell’esperienza estetica appare decisivo è proprio l’attenzione al particolare nella sua irriducibile concretezza e individualità. L’attenzione al sensibile. Nel romanticismo al centro della riflessione estetica viene posto il problema della conoscenza di tutto ciò che, organismo naturale o forma artistica, si presenti come qualcosa di individuale e determinato. Il risultato è la valorizzazione della storia, intesa come processo dialettico. Nel Novecento, invece è stato sottolineato con forza il carattere autonomo dell’esperienza estetica. La riflessione di B. Croce si fonda infatti, sull’esigenza di distinguere tra ciò che possiamo definire in modo legittimo arte e ciò che arte non è. Identifica l’esperienza artistica con l’espressione e la condivisione di un sentimento soggettivo: è quanto Croce definisce “intuizione lirica”. Adorno invece, mette in evidenza il rapporto paradossale che unisce, nell’opera d’arte, autonomia e non-autonomia, dando luogo alla dimensione del “fatto sociale”. Tale dimensione sociale si ritrova, nella struttura fisico-materiale dell’opera, nella sua forma. In questo modo l’esperienza estetica rivela la necessità di quel rimando alla vita che costituisce il contenuto di verità dell’opera e che fa di questa una negazione determinata dell’esistente. Nella contemporaneità la perdita di tale contenuto di verità si traduce nel cosiddetto ‘estetismo diffuso’ . Esso implica l’estetizzazione della vita in tutte le sue forme. In questo modo la nozione di estetica viene riferita alle manifestazioni più diverse – dagli oggetti di uso quotidiano alla politica, dagli spettacoli più eterogenei agli eventi sportivi – che tuttavia, essendo chiuse in se stesse, producono una vaporizzazione dell’idea di arte, negando di fatto quella possibilità di comprensione della realtà che invece aveva sempre caratterizzato le grandi opere.
Anche se non è compito dell’estetica dire agli artisti come essi debbano orientare il loro slancio creativo, è però suo compito riflettere sulle condizioni che rendono possibile un’arte a misura d’uomo, ossia un’arte che esprima gioiosamente, luminosamente il giusto rapporto fra gli enti e l’essere, fra ciò che l’uomo è e ciò che la sua parte migliore aspira ad essere (o a ritrovare). Oggi c’è più che mai bisogno di arte. Immersi come siamo in un’epoca di confusione e disorientamento generalizzato. Nell’epoca che stiamo attraversando, l’opera del poeta, dell’artista, del musicista è preziosa e necessaria per aiutarci a ricostruire le basi di un armonioso rapporto fra l’uomo e il mondo in cui vive, fra l’uomo e l’Essere da cui proviene e a cui vuol fare ritorno. Il filosofo Paul P. Gilbert, nel suo “Corso di metafisica”, parte dal presupposto che senza l’essere non vi sarebbe nulla. Il nostro tempo è purtroppo caratterizzato dall’impazienza, categoria che tende a sopprimere l’essere, il tempo e gli altri. Ricostruire l’estetica contemporanea, quindi – e, più in generale, ricostruire il pensiero contemporaneo – significa rinunciare all’impazienza e riscoprire, attraverso le varie manifestazioni della bellezza, la pazienza dell’essere, la pazienza e l’umiltà del giusto rapporto delle parti col Tutto, dell’uomo con gli altri e con l’Altro. La crisi morale ed etica dei nostri tempi ci ha portato a convivere quotidianamente non con la bellezza, ma con il suo perfetto opposto: la bruttezza. Così anche i linguaggi si sporcano. D’altronde non è più necessario rivestire il male di artificiale bellezza, quando il male domina platealmente. Nel comunicare non sono le tecniche e le prassi a guidare le strategie e i percorsi creativi, ma l’estetica e l’istinto. La buona comunicazione è strumento essenziale sia per assaporare la felicità ed estenderne nel tempo e nello spazio gli effetti, sia per intessere ed esplorare i percorsi che ad essa conducono. Nel primo indirizzo la comunicazione si apre all’estetica ed ai percettori sensoriali per cogliere e facilitare il riconoscimento e l’immersione nell’esperienza felice, che è in realtà molto più frequente di quanto noi siamo abituati a pensare. Le sovrastrutture dei desideri collettivi ed artificiali indotti dai media globalizzati, ci allontanano dalla capacità di riconoscere la bellezza e la semplicità delle infinite occasioni felici che affollano la nostra vita. Si può effettivamente constatare che sia la bellezza a muovere il mondo. Ma quale bellezza? Quale residuo del concetto di estetica? Secondo Bauman in questa società liquida domina l’estetica, ma la bellezza che regna è quella che chiede di esser belli risparmiandoci la bruttezza. “Belli sono i prodotti confezionati, – dice Michaud – i vestiti di marca con i loro loghi stilizzati, i corpi palestrati e ringiovaniti dalla chirurgia plastica, i visi struccati, le rughe stirate, i piercing e i tatuaggi, l’ambiente naturale protetto, gli interni arredati con le creazioni del design, […] le pietanze con decorazioni artistiche, o più semplicemente confezionate nei supermercati con buste colorate, come i leccalecca”. In queste rappresentazioni, la bellezza non è più quell’aura generata da un oggetto naturale o d’arte. Un’aura, unica ed irripetibile, che in-gaggia con noi una comunicazione sensibile e magica. Abbiamo bisogno di recuperare il vocabolario della bellezza, per poterla riconoscere, difendere e costruire. Un vocabolario che racconti di noi, della nostra storia, delle nostre scoperte antiche, del nostro corpo, della nostra mente e nostre emozioni. La bellezza, infatti, prima che fuori è dentro di noi. Nasce “nel nostro sguardo”, ma non può essere affidata allo sguardo inteso solo come vista. Il nostro sguardo è un saggio compagno se abbraccia l’intero campo di percezione e se matura attraverso l’osservazione e il vissuto sensibile e rispettoso delle esperienze, quelle ereditate dai nostri avi – e scolpite nel nostro codice genetico – e quelle vissute direttamente o attraverso lo spirito del proprio tempo. È il nostro campo di percezione che deve esser ridestato per ricondurci ad uno “stato estetico” capace di intuire e generare bellezza vera. Così, il “fine dell’estetica – suggerisce Baumgarten – è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale. E questa è la bellezza.” Questa è la vera strada della comunicazione mediterranea, quella a cui pazientemente lavora ogni giorno l’Accademia del Rinascimento Mediterraneo. “Paul Virilio ha fatto notare – scrive Semeraro – che non c’è ancora consapevolezza di quanto l’estetica della nostra epoca abbia a che fare con i sistemi di comunicazione. Non sono più le parole a veicolare i modelli. Alda Merini parla a tale riguardo di intima morte delle parole, sempre più fluide, scialbe e sempre meno cariche di risonanze. La finzione evocativa è da tempo passata all’immagine, che è una forma intensiva della velocità. Questa è a sua volta sinonimo di azione. Vedere è desiderio di azione.” Ma prima di agire, si deve conoscere, crescere, condividere attraverso l’impiego e dispiego di tutti i sensi, della ragione e dell’intuito. Ne vale la pena, perché, per dirla con Gibran, infondo “viviamo solo per scoprire nuova bellezza. Tutto il resto è una forma d’attesa.” Comunicare attraverso gli statuti della bellezza è urgente innanzitutto per reumanizzare le relazioni tra persone, affinché il comunicare possa aspirare al vero, al giusto, al piacevole, all’attraente, all’interessante, al sublime, al meraviglioso. La bellezza introduce all’etica e ne fornisce un’espressione. Per dirla con Kant “Il bello è il simbolo del bene morale”. “Tanto l’etica, quanto l’estetica – scrive Fronzi – si interessano dell’esistenza umana, della sua salvaguardia e, soprattutto, del suo miglioramento.[…] Nel pensiero classico greco questo legame rappresentava un vero e proprio ideale regolativo e formativo: il perfetto uomo greco era “kalokàgatos” (letteralmente “bello e buono”); doveva, cioè, incarnare la perfetta sintesi di bellezza e bontà. Dimensione etica e dimensione estetica, dunque, erano profondamente connesse se non coincidenti.” L’estetica mette in rapporto la nostra dimensione interiore con l’esterno e se questo dialogo viene accettato e condotto con semplicità e assecondando i linguaggi della bellezza, allora da questo incontro nasceranno bellezza e felicità ed entrambe le dimensioni, comunicando, tenderanno ad evolversi ed elevarsi. Perfezionare la conoscenza del mondo attraverso i sensi, questa è la strada. “Riunificare esperienza etica e valore economico attraverso l’estetica. Sperimentare la cura e il gusto nella ridefinizione dell’esperienza, che nasce dall’incontro tra la cultura e territorio e la capacità di creazione, tra la sensibilità e la bellezza”. L’alleanza tra estetica, etica, filosofia e scienza, tecnologia e informatica è urgente e determinante. La scienza può dirci tanto sulle dinamiche relazionali tra gli elementi minerali, vegetali e animali della natura (elementi tutti presenti anche nell’organismo dell’uomo), ma è attraverso un approccio estetico, e cioè di conoscenza-comunicazione immersiva e sensoriale, che si possono stabilire i canali di comunicazione in grado di mettere a frutto quelle informazioni scientifiche. Una comunicazione bioestetica e bioetica, in cui l’uomo può avere un ruolo importante e positivo solo adeguando alla natura i suoi stili di vita e di pensiero e dedicando molto del suo tempo all’ascolto.