Etica
“La vita etica è dunque nient’altro che il volere, che prende sé stesso come oggetto del suo proprio atto, il volere che vuole sé stesso: il volere che vuole volere”. (G. Capograssi, Introduzione alla vita etica, 1953).
Al termine “etica” è toccato il destino proprio di molte delle parole di cui abusiamo: i confini si sono slabrati, il contenuto si è annacquato, il peso si è fatto lieve. E’ “etico” un comportamento ossequioso, osservante della regola, ma anche uno trasgressivo, e dunque reputato libero. Il tentativo di recuperarne il senso coincide con la riscoperta dei rapporti drammatici fra l’“io” ed “gli altri”, fra il proprio “dentro” ed il “fuori”, fra la vita intima e l’ambiente sociale, o, in altri termini, fra la “natura” e la “cultura”. Lo sforzo etico, quindi, potrebbe consistere nell’impegno costante di ciascuno ad accordarsi al mondo racchiuso nei confini mobili della propria comunità di riferimento; potrebbe essere il lavoro interiore di ogni “rinascente”, alle prese con qualcuno dei nodi da sciogliere, fra la tentazione di assecondare la propria natura – come fosse possibile recuperarne l’archetipo, il modello vergine – e la tendenza a porgere l’orecchio alla cultura mediterranea nella quale siamo stati generati. Proprio il mare che ci bagna potrebbe suggerirci la strada di un ricongiungimento spontaneo fra l’una e l’altra o di una indistinguibile loro mescolanza. E potrebbe insegnarci che l’eticità del nostro vivere si esprime nell’armonia delle proporzioni, nell’ordine spontaneo che costruiamo nello spazio che occupiamo, ovvero nella bellezza del nostro sguardo sul mondo.
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Nell’uso divenuto comune, la parola “etica” richiama una vaga accezione positiva; attribuiamo ad essa il potere di rendere “buono”, “accettabile”, “corretto” ciò cui si accompagna. Non è ben chiaro se sia sempre etica la scelta di rispettare la legge o di onorare un patto disonorevole; neppure sapremmo dire con certezza se è eticamente opportuno obbedire comunque ad un genitore oppure opporvisi. L’uso non sempre sorvegliato della parola le ha conferito una connotazione imprecisata, forse perfino banalizzata; tendiamo ad appiattirla su semantiche in qualche caso limitrofe o in qualche modo assonanti, altre volte perfino da essa divergenti. Tendiamo, per un verso, a identificarla con una qualche forma di legalità, ovvero reputando etiche quelle azioni conformi al modello di ordine costituito cui facciamo riferimento; secondo questo schema mentale prima che comportamentale, la dimensione etica, quindi, si svilupperebbe tutta“fuori-di-sé”, tutto attorno, nelle relazioni con gli altri, nella vita “sociale”. Per altro verso, abbiamo la tentazione di ricondurla ad una sfera intima, a scelte che coinvolgono il presunto “foro interno”, perfino la coscienza. Tendiamo a ridurla al sé, all’in-dividuo (“che non può essere diviso”); così, la condotta eticamente orientata rifletterebbe un’intima ponderazione di principi e valori e svelerebbe la parte più profonda del singolo, solo ed isolato.
Nell’una come nell’altra ipotesi il risultato è il medesimo: tracciamo un solco profondo fra l’interno e l’esterno, fra l’“io” e gli “altri”, fra il “sé” e “tutto il resto”, come se l’io non riguardasse il mondo e il mondo non riguardasse l’io. L’etica, quindi, atterrebbe al contesto, all’ambiente, in termini di conformità delle azioni al suo modello, oppure, per converso, riguarderebbe scelte intime, per alcuni versi insondabili, che si risolvono nel proprio personale convincimento.
Un viaggio rapido alla ricerca delle radici della parola può forse servire a ricongiungere queste due strade, cui si è accennato, o, almeno, ad accorciarne le distanze. All’origine del greco ethos, c’è la radice indoeuropea -své da cui in greco è derivata la parola idios, nel significato di proprio, personale. L’etica si riconnette dunque alla persona, alla parte più profonda di sè; tuttavia, dalla medesima radice sono derivati vocaboli che indicano rapporti di parentela come “cognato” o come “sorella del cognato”: il singolo emerge qui non in sento individualistico, bensì come il sé-nella-comunità; e la prima comunità a venire in luce è quella familiare, cui si partecipa sin dal primo essere, indefettibilmente. La comunità, poi, forse diversamente dalla società , sembra indicare quel fascio di relazioni che tengono stretti insieme i singoli, ciò che li aggrega, senza che lo vogliano, senza che abbiano scelto di essere parte di quel tutto; la dimensione “comunitaria”, infatti, e non quella “sociale”, rende irrilevante il peso delle volontà dei singoli, che appartengono ad un aggregato più o meno ampio e complesso, nel senso che ne sono parte, essendovi intrinsecamente immersi, senza mai, cioè, averlo volontaristicamente scelto. E’ la relazione di appartenenza che si instaura, appunto, con la famiglia in cui si nasce, o, più radicalmente, col grembo nel quale si è generati; o, ancora, è il rapporto che lega i parlanti la stessa lingua, o gli adoranti lo stesso dio: non c’è un patto a monte di quell’appartenenza, c’è un senso, di quell’appartenenza, a posteriori, che non si può volere, ma al più riconoscere per riconoscersi.
L’etica, quindi, sembra proprio riassumere un appartenere a, un essere parte di, e anche un appartenersi. Al contempo, infatti, la parola mostra e realizza un collegamento ineffabile di ciascuno con la radice più nascosta ma determinante di sé ed è segno del suo partecipare di un’identità che descrive, connotandola, la comunità di riferimento.
Ethos, in greco, d’altronde, è la consuetudine, il costume, l’abitudine invalsa in un gruppo; è “etico”, pertanto, ciò che si ricollega al sentire insieme, all’assumere come “dato” un principio, un criterio di giudizio, un parametro di riferimento, riconoscendogli autorevolezza e pregio, ma senza mai esserselo reciprocamente detto; si riconnette, cioè, ad uno spontaneo convenire sui presupposti del proprio convivere, che mai è stato necessario mettere ai voti o su cui mai si è ritenuto opportuno mettersi formalmente d’accordo, perché appartenenti alla cifra stessa del proprio essere, e non discutibili, né dicibili, se non al prezzo della progressiva erosione del tessuto connettivo di quella comunità. Non si tratta, dunque, del costume individuale, seppure inveterato, del singolo; né dell’abitudine rodata, sperimentata da un gruppo, ma esaurentesi in nient’altro che questo: si tratta dei pochi nodi invisibili che tengono legate insieme tutte le periferie della comunità, garantendone spesso la sopravvivenza, si tratta del centro invisibile attorno cui essa ruota e converge inerzialmente, per sopravvivere.
Il “dentro”, dunque, si riconnette inevitabilmente al “fuori”: etico è ciò che sento essere “buono”, non solo secondo il mio insondabile e sovrano giudizio, bensì secondo un sentire collettivo e comune, che mi pare per lo meno assonante al mio, se non dello stesso segno; è etico ciò che penso sia percepito come collante, come presupposto condiviso della convivenza, da quel pezzo di umanità nella quale vivo .
Nella comunità, dunque, il singolo non si perde, ma si ritrova: è nelle relazioni comunitarie, infatti, che riappare l’idios, l’io in rapporto a sé stesso. Non c’è antitesi fra l’io e gli altri; è proprio la comunità che silenziosamente ricompone la dicotomia e arrotonda le asperità.
L’esperimento di un’Accademia che invita al “rinascimento” di alcune parole, dei loro sommersi significati, nonché dei relativi stili e delle corrispondenti condotte, è già un esperimento di vita “etica” ; è un tentativo di sintonizzare il ritmo del proprio passo con quello della terra che lo accoglie, di provare ad accordare il senso di sé e del mondo che ci suggerisce la cultura di cui siamo intrisi con l’ineffabile natura, nostra e di ciò che ci sta attorno. Potremmo perfino scoprire che non basta rispettarla, quella natura, ma che occorre “coltivarla”; e che, nel “coltivarla”, si può, nello stesso momento, provvidenzialmente “coltivarsi”; si può trovare nella vita etica un esercizio di bellezza , che è “debita proportio sive consonantia” , è proporzione armoniosa della parte nel tutto, ricollocazione ragionevole e prudente del sé nel mondo ed è corrispondenza assonante del sentirsi dell’uno parte dell’altro. L’Accademia non dispensa, così, un decalogo, né un elenco di buoni propositi, ma traccia, percorrendolo, un percorso accidentato, lungo il quale suggerire una possibile accordatura dell’io al noi, della creatura al creato; in cammino, con una mappa, ma senza un tesoro da trovare chissà dove; semmai da riconoscere lì, tra le mani e in mezzo ai piedi, sulla strada.