Fiducia
“Fiducia” è parola feconda, espressiva non solo di uno stato d’animo, perfino di un atteggiamento, decisivi degli esiti delle relazioni fra persone, ma sintetica di una dimensione mentale, di un orizzonte del pensiero.
L’idea dell’affidarsi, del rimettere il proprio sé nelle mani di un altro e, di contro, dell’accogliere l’invito, del custodire quell’affidamento, onorandolo, rievoca l’immagine di un cerchio, di un circuito comunicativo, che funziona nello scambio e che si alimenta nella reciprocità; di un flusso, che non si risolve in un ipotetico punto di approdo, ma che si realizza nel suo stesso scorrere e mutare; di una rete, che lega, ma non costringe. E’ su questo terreno che si costruisce la dimensione collettiva del vivere: fuori dal paradigma dell’obbedienza a regole, dell’adesione a un modello di condotta, la fiducia è criterio e involontario parametro di comportamento; è cemento delle relazioni, collante di progetti condivisi, è ritmo cadenzato della convivenza.
L’Accademia, fucina dell’arte e del mestiere della fiducia, lungi dal “formare” i rinascenti, vuole provare a fornire loro gli attrezzi del mestiere e a suggerire strade per riscoprirla e riconoscerla nelle pieghe del dire e del fare.
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Riagganciata ad una delle radici richiamate dal suo discusso etimo, fides, assunta a sostantivo di credo (fidem habere), riconnette l’“avere fiducia” in qualcuno con il “credergli”, ovvero con il “dargli credito”; addirittura con l’”affidarsi” a lui. La fiducia, dunque, innescherebbe un circuito nel quale dare una chance a qualcuno, sul presupposto della sua “affidabilità” o “credibilità”, per l’appunto, finisce per coincidere con l’avere fiducia e – all’estremo – con il rimettersi quasi ciecamente nelle sue mani . Ma fides, per il tramite della radice indoeuropea bheidh-/bhidh, si ricollega anche a πίστις, da πείθω (persuado) e da πείθομαι (mi lascio persuadere, mi convinco, quindi credo). L’atto di fiducia, in tal senso, sarebbe il risultato dell’abbandono all’altrui “seduzione” (se-ducere), ovvero dell’essere “portati fuori di sé”, attratti dall’altrui consiglio, suggerimento, progetto, esempio. L’approdo di questa attrazione è “suavis”, mai violento, mai imposto, ma in sé imparentato con una “scelta” libera perché responsabile, responsabile perché libera.
Il terreno della fiducia, dunque, appare quanto mai sdrucciolevole e costitutivamente incerto: nel fidarsi, affidandosi, come nel credere, non si hanno garanzie, o almeno non si dispone di fissi parametri formali di riferimento che garantiscano del risultato. Non ci si fida previo calcolo razionale dei pro e dei contra, non si scommette su una relazione o su un incontro, obbedendo ad un comando, né si punta sulle possibilità di far crescere un progetto, di far lievitare un sentimento, assecondando un monito, fosse esso anche un imperativo morale. In questa prospettiva, la fiducia è un flusso, non uno stock: conta il processo – che si snoda e si riarrotola nel persuadere e nel lasciarsi persuadere – non il risultato ed il risultato è già nel flusso comunicativo innescato dal circuito della fiducia. Il valore del fidarsi è nel reiterato riporre fiducia custodendo la fiducia altrui; il risultato – averci visto lungo, aver scelto opportunamente colui al quale dare credito, aver scommesso giusto – è quasi irrilevante.
Nella sua dimensione processuale, dunque, la fiducia descrive un’opzione tutt’altro che irenica o banalmente piana; se mi fido di te, assumo un rischio: quello di sbagliare, sopravvalutandoti o sopravvalutando me stesso, che scommetto senza garanzie; se mi dai credito, senza che ti abbia fornito le “prove” di meritarlo, sento il peso del tuo impegno, della tua scelta di investire su di me, o su di noi, senza ipoteche di sorta. Nella complessità delle relazioni, come nell’imprevedibilità degli esiti di ogni fenomeno comunicativo, la fiducia potrebbe essere mal riposta, il credito scoperto, la mala fides – l’inganno o l’autoinganno – prevalere: chi ha scommesso, fidandosi, potrebbe restare deluso dal comportamento del depositario di quella fiducia o dalla propria incapacità di scegliere chi o cosa meriti fiducia.
Nella prospettiva di una razionalità calcolante, secondo, brevemente, un modello cartesiano di ragionamento deduttivo, tenderemmo, invece, a riconoscere un ipotetico primato alla certezza, alla stabilità; cercheremmo garanzie, quanto più solide possibili, prima di agire. Sceglieremmo, non ci lasceremmo mai scegliere, delegheremmo, più o meno convinti di essere rappresentati; agiremmo convinti di assecondare la nostra volontà padrona, razionalmente controllabile, che fa la conta dei vantaggi prima di puntare su una soluzione, che schiva le ambiguità, protetta e rinfrancata dalle scelte di una qualche maggioranza. In quest’ottica, l’instabilità propria dei modelli fiduciari di condotta equivarrebbe ad incertezza e, progressivamente, a relatività – o relativismo –, a vaghezza, a estrema labilità delle relazioni, a precarietà nei rapporti, nei programmi, nelle stesse azioni.
Nella parola “trust”, invece, – approssimativa versione in inglese del termine “fiducia”, assieme, ma non identicamente, e “faith”, dall’antica radice germanica *dreu (la medesima di “true”, vero), da cui anche drus, che significa “quercia”, ma più genericamente “albero”, anche nella lingua greca – recuperiamo l’idea della forza, della stabilità e della radicalità, per eccellenza. Le relazioni intessute sulla trama e sull’ordito della fiducia, dunque, apparentemente traballanti ed esposte fatalmente agli equilibri temporanei faticosamente raggiunti, se autenticamente reciproche, sarebbero invece saldamente ancorate al terreno dell’intelligenza emotiva che le ha generate: fuori dall’inganno e dall’approfittamento doloso, esse sono “certe” perché “garantite” dalla stessa bona fides che le ha partorite. Come per le regole del fair play , che “si tengono” per via del riconoscimento scambievole e tacito della loro opportunità, senza bisogno che siano prescritte. In questa dimensione, non c’è nulla di più stabile, saldo e destinato a sopravvivere alla contingenza se non il circuito comunicativo della fiducia, che inerzialmente si allarga, riverbera i suoi effetti tutt’intorno, se-duce nuovi destinatari, abbraccia e ingloba sempre nuove possibilità comunicative e conoscitive.
Nulla di tutto ciò, tuttavia, può accadere se non nel “giusto” scambio di fiducia-con-fiducia, se non nella reciprocità; non esiste fiducia, cioè, che non sia mutua: non ti do’ credito se non “sento” di poterlo fare, non accolgo il tuo atto di affidamento e non me ne prendo cura se non avverto il filo teso di una condivisione che un attimo fa mi sfuggiva. L’immagine della fides, dunque, è quella della rete, di un intreccio aperto nelle tre dimensioni, leggero, ma solido, sottile, ma resistente.
E’ difficile pensare ad una “scuola” della fiducia; è complicato pensare che la si possa insegnare, o la si possa “apprendere”; concreta, ma impalpabile, è materia magmatica, che sfugge alle formalizzazioni, dal lato dei docenti come da quello dei discenti: è illusorio pensare di ridurla a regole di condotta, a modelli di comportamento reputati più inclini ad essa. Non si impara, dunque, né a dare né a meritare fiducia. Ma la si può coltivare. Non dando una certa forma al proprio agire, ma cercando in esso la traccia di una simpatia perduta; lasciando che l’esperienza comune solchi, come fa l’aratro, la struttura monolitica delle azioni spesso etero-determinate (o ciecamente auto-determinate) e faccia entrare ossigeno; spiando, con infinita pazienza, dentro le pieghe del dire e del fare quotidiani, per ritrovare il capo del filo che si era perduto. Per riannodarlo ad uno degli svariati fili di cui è intessuta la convivenza. Per scommettere sulla terra che si calpesta, sugli “altri” appena incontrati sulla via, sul tempo che si è “scelto” di aspettare e non solo di riempire. La virtù della fiducia, dunque, potrebbe essere tutta nell’ascolto perseverante di un racconto altrui, o nello scoprire una delle proprie carte, un talento o un dono, per offrirlo ad un passante che poi solo passante non è. Il mestiere della fiducia, dunque, potrebbe quindi passare per la fatica giornaliera del tenere il ritmo del proprio passo in armonia con il “resto”, per riscoprire che il “resto” è forse “tutto”; potrebbe essere il distillato dello sforzo, a volte doloroso, del saper andare “quando si deve” e rallentare, “quando si deve”, del serbare prudenza, quando serve e cedere allo slancio, quando serve. Prendendo spunto dall’onda e dalla risacca, per non perdere il tempo.
A latitudini mediterranee, forse, è più facile. E l’Accademia è un modo per riaprire il solco tracciato dalla parola “fiducia”, per inseguirlo nelle diramazioni che il progetto di un Rinascimento, a latitudini mediterranee, saprà suggerire.