Mediterraneo
Per una volta, possiamo provare a farci orientare dal mare; non siamo noi ad armarci di strumenti, per affrontare il mare; ma scegliamo il mare, il Mediterraneo, per orientare le nostre scelte. Il ritmo cadenzato delle sue onde, il tempo che ci detta la sua risacca possono scandire i nostri passi e darvi senso. L’Accademia del Rinascimento sceglie la medietas di questo mare come bussola nella propria ricerca: c’è, nella sua storia e nella sua geografia, un denominatore comune che può descrivere ai rinascenti mediterranei i modi e i tempi per una riscoperta di un koiné sopita, ma viva; è l’armonia dei suoni, dei sapori e delle relazioni personali che lungo le sue sponde nascono, muoiono e rinascono.
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Darne una definizione è pericoloso, pretensioso, fuorviante. Già Braudel , un gigante del pensiero meridiano, ne ha sperimentato le difficoltà, rinunciandoci, pur continuando a raccontare le memorie, gli uomini, gli spazi e i tempi del Mediterraneo.
Come possono le parole ridurre ad unità la molteplicità di linguaggi, storie, umori, paesaggi, volti, riti che le sue sponde hanno generato e accolto? E’ come provare a inseguire i mille rivoli in cui si diramano le sue acque, a contatto con la terraferma; è come provare a trovare una regolarità nel moto perpetuo delle sue onde, che si rifrangono sulle sue rive.
E’ più facile, allora, raccontarla in piccoli sprazzi, frammenti di storie, pezzetti di percorsi che forse accomunano la gente del Mediterraneo. Non che il racconto, in questo caso, sia piano; non che sia facile riassumere qualche secolo di contaminazioni, invasioni armate e non, imprecise sovrapposizioni, soprusi, meticciati vari che ne hanno segnato le fratture e le continuità. E tuttavia, nell’improvvisa sintonia che sentiamo verso uno sconosciuto, nato sull’altra sponda del nostro stesso mare, nella familiarità di un suono lontano, o di un sapore insolito, abbiamo una chance di recuperarne la traccia.
La babele di lingue che risuonano lungo le rive vicine e lontane del Mediterraneo sembra avere al fondo una grammatica comune, elementare, un patrimonio semantico condiviso, che permette ai parlanti lingue formalmente ignote di comprendersi, di intuire le reciproche intenzioni, di indovinare gli umori. Dove non arriva la conoscenza approfondita del lessico, arriva la comunicazione dei sensi e, ancora di più, arriva “il brusio della lingua” , quello che veicola i significati, più delle regole della sintassi, più del rigore della parola scritta.
I riti, i cerimoniali sulle due sponde del Mare nostrum raccontano storie comuni, sono intessuti di ritornelli noti, di atmosfere consuete; colorano di rosso e d’oro le processioni, rivestono gli altari, illuminano le strade e le piazze di un folklore e di una devozione diffusi fra le genti che abitano vicino al mare e a quel mare.
Lungo quelle sponde, i cibi profumano di aromi simili e rievocano gli stessi campi, le stessi reti dei pescatori, la stessa canicola, gli stessi muri bianchi accecanti; come se la biodiversità da Tunisi a Venezia non bastasse ad annacquare quel retrogusto comune, quella sapidità familiare.
Il tamburello, il bouzouki, l’organetto: da una riva all’altra riva del Mediterraneo, la musica accende passioni comuni, riverbera energie spontaneamente cooperanti e parla una lingua franca: crea sintonie improvvise ma solide e, nei suoi ritornelli, racconta di storie che si somigliano. I fiati della banda del Paese, le nenie dei canti popolari e gli arpeggi virtuosi delle chitarre travalicano i confini della terraferma e si mescolano alla schiuma di quel mare e al vento sferzante di quelle coste.
Una koiné mediterranea, dunque, di cui è difficile disegnare i contorni, senza che il gesto non sembri ispirato a un qualche localismo, o peggio al più miope municipalismo. Una koiné, nel significato non di lingua comune, in senso stretto, né di civiltà: parole che in se stesse già parlano di divisioni, di distinzioni e di confini; koinè come chiave di comunicazione, come patrimonio condiviso, genetico e culturale allo stesso tempo, sul quale, cioè, il lavoro del “mettere in comune” si fa più lieve, perché si affida ad un sentire diffuso, ad un serbatoio di valori e di umori che ci appartengono. La Puglia, completamente immersa nelle sue acque, può vivere la sua provvidenziale collocazione come un dono insperato e non più come la condanna ad una presunta perifericità. Tuttavia, le microstorie di persone lontane dalle nostre rive e dall’odore di questo mare ci raccontano di virgulti di mediterraneità anche lontano, anche nei fumi di qualche città, anche nelle campagne brulle del Centro Europa, anche dietro le scrivanie, nell’ ufficio di una multinazionale mortifera.
La ricerca dei rivoli nei quali si dipana il pensiero meridiano , dunque, deve poter partire dalla geografia dei luoghi, per ritrovare assonanze ed assecondarle, ma, allo stesso tempo, deve sapervi prescindere, per cercare anche al di là del mare, per scovare la traccia anche laddove l’odore del sale e del vento giungono tenui e impercettibili.
La suggestione di un’armonia mediterranea, sollecitata dalla medietas che la parola “Mediterraneo” richiama, potrebbe ingenuamente fare rima con l’immagine illusoria di una società di pari, irenica, fondata su una fiducia spontanea e a basso costo. La storia, a latitudini mediterranee, non preserva dal conflitto, dalla controversia, dalla contraddizione; la storia del mare e delle sue sponde racconta di lotte e di sangue, di ingiustizie e di violenze; la ricerca di una rotta comune significa smarrimento e tempesta, significa fraintendimento e slancio, significa onda ma anche risacca.
La riscoperta di una koiné mediterranea è la sfida dell’Accademia; essa passa per un lavorìo artigianale di racconto e di ascolto, di ascolto e di racconto; per l’esperienza e la sua teorizzazione, per l’intreccio di rapporti e la ridiscussione dei loro presupposti. Senza per questo essere al riparo dalla burrasca, ma affrontandola, senza avere in mano una carta, ma una meridiana.