Talento
La ricerca del carisma, la promozione consapevole del talento non è un’operazione solitaria, affidata alle capacità individuali dei singoli. Essa è processo collettivo di conoscenza e riconoscimento di sé e della comunità di riferimento; è procedimento identitario, spinto fino alle radici non di una semplice appartenenza ad un gruppo ma della propria sincrona co-essenza.
A latitudini mediterranee, la ricerca si intreccia con il lascito pesante delle storie di eroi, delle biografie dei grandi, delle parole dei maestri, della magia dei miti bagnati da questo mare. Lungo questo percorso di auto-riconoscimento collettivo, l’Accademia può fornire punti di riferimento, ganci per orientarsi, incoraggiando ciascuno a trovare il coraggio di perdersi, per ritrovarsi.
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Per riconoscere il proprio talento potrebbe non bastare il tempo a disposizione; potremmo ingannarci, illuderci, potremmo mortificarlo; potremmo investire energie e aspettative nostre e di chi sta intorno arbitrariamente e ingiustificatamente. Potremmo farci confondere da un innamoramento fugace, da un’attrazione o dall’infatuazione per un ideale mai esplorato fino in fondo.
La parola ha un’origine greca esemplare: il latino talentum, infatti, è una traslitterazione dal greco τάλαντον che, se nell’Iliade è usato nel significato di “piatti della bilancia” e di “bilancia”, passa, nell’Odissea, ad indicare non il mezzo della misurazione, ma la “quantità”, il “peso” ed in seguito l’“unità monetale”. Anche in latino è attestata con il valore di moneta. Nuovo valore ha assunto con la parabola evangelica dei talenti riferita da Matteo: l’esegesi patristica li ha intesi come “capacità”, “doti”, significati vicini a quelli moderni di talenti, che indicherebbero per noi le inclinazioni, le abilità.
Se ci interroghiamo su quali siano i nostri “talenti”, non è, o non necessariamente, è in discussione la realizzazione di obiettivi ambiziosi, l’impegno indefesso ed il lavoro alacre che ciascuno metterebbe in campo per lasciare una traccia indelebile del proprio passaggio nel mondo. E’ semmai la ricerca della propria cifra caratteristica, lo sforzo di individuare, fra le pieghe della propria esistenza, dei propri umori e delle sensibilità mutevoli, il tratto genetico irripetibile che ci contraddistingue come plurime ed inevitabili eccezioni. Il talento, quindi, ha poco a che fare con “ciò che sappiamo fare”; è più facile che abbia a che fare con “ciò che siamo”. Scoprire questa cifra, quindi, significa in fondo conoscersi, per riconoscersi. Nei due significati di “piatto della bilancia” (o di “bilancia”) e di “moneta”, la parola indica, infatti, lo strumento con cui attribuiamo pesi e misure alle cose: il talento è quindi il mezzo con cui ci misuriamo, non per quantificare la nostra abilità, ma per attribuirci più sostanzialmente un peso, un pondus (per “ponderarci”) o un valore (per “valutarci”), quindi. Nel pesarci, non misuriamo distanze, o quantità, non siamo chiamati a darci i voti, né a promuoverci, ma a conoscerci, per scoprire dove si esprime meglio il nostro sé, fin dove arriva la nostra distinguibile qualità. Non ci interessano le competenze, men che meno le specializzazioni; a questo scopo, a poco servono le settorializzazione, molto di più serve la capacità di cogliersi nella globalità di sé e del mondo nel quale si vive.
Per imparare a “valutarci”, non sempre disponiamo di bilance adatte. Spesso non abbiamo scuole che selezionino talenti puri e selezionino, per escluderli, semplici focolai di passioni passeggere; non sempre possiamo seguire maestri abili nell’arte di e-ducare, ovvero di condurci fuori dalla confusione apparentemente ordinata della formazione e dei piani di studio, perfettamente cadenzati. Non abbiamo abbastanza piazze, o abbiamo piazze silenziose, dove la missione di scoperta dei talenti, palleggiata dalle famiglie, negletta dalle scuole, possa trovare i suoi teatri. Abbiamo dei libri, tanti libri; abbiamo maestri di oggi e di ieri che dobbiamo però andare a cercare, se non ci hanno attraversato la strada. Per farlo, dobbiamo sintonizzarci su una lunghezza d’onda giusta, addirittura provvidenziale, e non cedere alla tentazione di percorrere strade più usuali che passino per titoli, ricchi curricula, buone relazioni sociali.
E c’è poi il luogo in cui siamo nati o in cui viviamo, che può promuovere questa ricerca e può motivarla. Potremmo scoprire, mentre proviamo a riconoscerci, che è il posto che abitiamo a guidarla; proprio il Mediterraneo potrebbe suggerirci degli itinerari lungo i quali condurre i nostri passi, alla ricerca del tratto distintivo del nostro incedere. E in questa ricerca potremmo vedere altri, come noi, cercare con lo stesso passo, lento o affannato, o trovare talenti mai uguali, ma in sorprendente comunicazione; il mare attorno al quale ci stringiamo potrebbe in fondo tendere quel filo sottile che tiene insieme i talenti delle genti mediterranee, potrebbe dare loro un comune colore di fondo e far somigliare, pur impercettibilmente, sensibilità altrimenti diverse, attitudini altrimenti disparate.
Il progetto dell’Accademia non si pone obiettivi rigidi e traguardi prefissati (come fosse possibile vedere la fine della strada, senza mai averla percorsa); intuisce, però, una tendenza e sceglie di assecondarla, giovandosi non di programmi o di decaloghi, ma del valore infungibile delle persone. Fra di esse, si annidano scrigni di talenti, gamme amplissime di possibilità sconosciute, frequentate o parzialmente sperimentate che si offrono alla comunità perché ad esse attinga e perché da esse si faccia inondare. Quasi non esistono “legittimi titolari” dei rispettivi talenti: essi sono patrimonio comune, il vero bacino culturale del Mediterraneo, deposito stratificato di saperi, di “saper fare” e di “saper essere”.